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Lo stadio Maradona e lo stadio Paolo Rossi

Ieri sera a Napoli si è giocata la prima partita nello Stadio Diego Armando Maradona, cioè nel vecchio San Paolo ribattezzato a tempo di record con il nome del mito argentino.
Difficilmente a Paolo Rossi verrà intitolato uno stadio di primo piano (mi segnalano una proposta di intitolazione nella natia Prato), e non per un fatto di minore rilevanza, ma perché Paolo Rossi non si è mai identificato con una città come Maradona ha fatto con Napoli (o, per fare un altro nome “a caso”, Erasmo Iacovone con Taranto).
La vera identificazione, Paolo Rossi l’ha avuta con la maglia azzurra. Ecco perché gli unici stadi che dovrebbero portare il suo nome sarebbero il Santiago Bernabeu e il Sarriá. Io sono stato in entrambi, in pellegrinaggio.

Al Bernabeu ci andai con il mio sodale Osvaldo nel mio primo viaggio a Madrid, a cavallo fra il ’93 e il ’94. Non era ancora tempo di tour guidati negli stadi, e l’impianto era chiuso anche perché c’erano dei lavori in corso. Il losco custode, con stemma del Real sulla giacca, che ci sbarrò la strada, non si fece commuovere dalle nostre preghiere, recitate in un crescendo che ricordava le cavallette di Belushi: “Siamo italiani, per noi è uno stadio molto importante, SIAMO VENUTI A MADRID APPOSTA!”. Ma quando mi ricordai come si dice “mancia” in spagnolo (“propina”), i cancelli del grande stadio magicamente si aprirono. Prima o poi ritroverò la foto venuta male che mi immortala davanti alla targa celebrativa del 3-1 alla Germania.

Un paio d’anni dopo, nel mio primo viaggio a Barcellona, snobbai il Camp Nou e da solo (il mio sodale Stefano quel giorno lavorava) m’incamminai verso il Sarriá. Si trovava lungo la stessa Avinguda che costeggia il Camp Nou, ma molto più in periferia. Arrivato, trovai cancelli spalancati, operai e mezzi meccanici. Lo stavano smantellando in vista dell’imminente demolizione. Nessuno fece caso a me, così entrai e scattai un po’ di foto. Era più piccolo di come mi era sempre sembrato in tv, con i seggiolini bianchi e azzurri dell’Espanyol (o dell’Italia?!), dimesso ma non privo di una sua grazia. Fu triste apprendere che da lì a poco sarebbe scomparso, ma fui felice di avergli reso quell’omaggio in extremis. Andai via con addosso una sensazione un po’ dolce e un po’ amara. Soprattutto dolce.

Il Santiago Beranbeu è lo stadio del Real Madrid ed è intitolato al suo fondatore. Il Sarriá non era intitolato a nessuno, in realtà non aveva un vero nome (si chiamava Estadi de Sarriá semplicemente perché Sarriá era il quartiere in cui sorgeva). Il Sarriá non c’è più, ma un calciatore l’ha reso eterno. Ora che anche quel calciatore è scomparso, per me il Sarriá si chiama Stadio Paolo Rossi. 

Omaggio a Paolo Rossi

IL MIO MUNDIAL

Nell’estate 1982 mio nonno – bon vivant e grande viaggiatore – portò me (11 anni e mezzo) e mio fratello (13 appena compiuti) a Parigi in un viaggio “per soli uomini”.

Io da un lato ero contento per quella bellissima opportunità, ma dall’altro anche dispiaciuto perché non avrei potuto seguire i Mondiali. Sì, è vero, l’Italia nel girone di qualificazione aveva fatto pena, ma quello era pur sempre il mio primo Mondiale da “tifoso consapevole” (Argentina 78 è una confusa memoria ancestrale).
Le mie preoccupazioni però, risultarono in parte infondate. Tutto il tempo in giro per la Ville Lumiere, ma all’orario in cui giocava l’Italia, cascasse il mondo, rientravamo in albergo per seguire la partita dal televisore in camera. Vedemmo così le sfide contro l’Argentina, il Brasile e la Polonia. Gli eroi del Mundial li sentimmo chiamare “Cabrinì”, “Orialì”, “Contì”, “Tardellì”… e ovviamente “Rossì”.

Fra una partita e l’altra, i turisti delle nazionalità più disparate ci riconoscevano come italiani, prima un po’ sfottenti, poi con crescente rispetto. Fu allora che per la prima volta fui sottoposto a quell’identificazione che toccò a tutti noi, per molti anni a venire, in ogni soggiorno all’estero: “Italiano? Paolo Rossi!”.

La sera della finale… eravamo in treno! Un lungo viaggio in treno da Parigi a Taranto. Poco prima che la partita iniziasse, ci fermammo a Napoli: dai binari, la intravvedemmo imbandierata e silenziosa. Io e mio fratello, insieme a quasi tutti i pochi passeggeri di quel treno, ci ammassammo nei pressi dello scompartimento dell’unico possessore di una radiolina. Subito dopo l’assegnazione del rigore per l’Italia, il treno entrò in una galleria e non si sentì più niente. Quando la galleria finì, era finito anche il primo tempo: probabilmente fummo gli ultimi italiani sulla Terra a sapere che Cabrini aveva tirato fuori.

Nel secondo tempo, però, come tutti sanno, ci rifacemmo. Dopo ciascuno dei tre gol e al fischio finale, io e mio fratello corremmo urlando nel treno per andare ad aggiornare il nonno, che era rimasto al proprio posto.

Arrivati a Taranto, con circa venti ore di viaggio sulle spalle, impiegammo quasi lo stesso tempo per attraversare in auto la città paralizzata dai caroselli e dai proverbiali bagni nelle fontane. Ma eravamo felici.