IL MIO MUNDIAL
Nell’estate 1982 mio nonno – bon vivant e grande viaggiatore – portò me (11 anni e mezzo) e mio fratello (13 appena compiuti) a Parigi in un viaggio “per soli uomini”.
Io da un lato ero contento per quella bellissima opportunità, ma dall’altro anche dispiaciuto perché non avrei potuto seguire i Mondiali. Sì, è vero, l’Italia nel girone di qualificazione aveva fatto pena, ma quello era pur sempre il mio primo Mondiale da “tifoso consapevole” (Argentina 78 è una confusa memoria ancestrale).
Le mie preoccupazioni però, risultarono in parte infondate. Tutto il tempo in giro per la Ville Lumiere, ma all’orario in cui giocava l’Italia, cascasse il mondo, rientravamo in albergo per seguire la partita dal televisore in camera. Vedemmo così le sfide contro l’Argentina, il Brasile e la Polonia. Gli eroi del Mundial li sentimmo chiamare “Cabrinì”, “Orialì”, “Contì”, “Tardellì”… e ovviamente “Rossì”.
Fra una partita e l’altra, i turisti delle nazionalità più disparate ci riconoscevano come italiani, prima un po’ sfottenti, poi con crescente rispetto. Fu allora che per la prima volta fui sottoposto a quell’identificazione che toccò a tutti noi, per molti anni a venire, in ogni soggiorno all’estero: “Italiano? Paolo Rossi!”.
La sera della finale… eravamo in treno! Un lungo viaggio in treno da Parigi a Taranto. Poco prima che la partita iniziasse, ci fermammo a Napoli: dai binari, la intravvedemmo imbandierata e silenziosa. Io e mio fratello, insieme a quasi tutti i pochi passeggeri di quel treno, ci ammassammo nei pressi dello scompartimento dell’unico possessore di una radiolina. Subito dopo l’assegnazione del rigore per l’Italia, il treno entrò in una galleria e non si sentì più niente. Quando la galleria finì, era finito anche il primo tempo: probabilmente fummo gli ultimi italiani sulla Terra a sapere che Cabrini aveva tirato fuori.
Nel secondo tempo, però, come tutti sanno, ci rifacemmo. Dopo ciascuno dei tre gol e al fischio finale, io e mio fratello corremmo urlando nel treno per andare ad aggiornare il nonno, che era rimasto al proprio posto.
Arrivati a Taranto, con circa venti ore di viaggio sulle spalle, impiegammo quasi lo stesso tempo per attraversare in auto la città paralizzata dai caroselli e dai proverbiali bagni nelle fontane. Ma eravamo felici.